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La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò
Nuova edizione
Marco Olivieri
€ 16,00
- pp. 168, 32 immagini in bn
- marzo 2017
- ISBN: 978-88-99559-13-7
- le opere e gli autori
Questa prima monografia dedicata al cinema di Roberto Andò illustra la peculiarità di un autore rigoroso che nei suoi film, da Diario senza date (1995) a Le confessioni (2016), ha costruito un percorso coerente e originale mettendo in scena la “memoria degli altri”, un intreccio appassionante di destini individuali e collettivi. Il libro contiene, oltre alle analisi dei singoli film, un intervento dello stesso regista che ripercorre le tappe della sua vita e della sua carriera.
Conferenza sul cinema italiano dell’Indiana University (19-22 aprile 2017)
In occasione dell’annuale Conferenza sul cinema italiano dell’Indiana University (19-22 aprile 2017), promossa dal professore Antonio Carlo Vitti, il giornalista e critico cinematografico messinese Marco Olivieri presenta in un simposio il cinema di Roberto Andò, ospite d’onore dell’ottava edizione. “The Eighth Annual Film Symposium on New Trends in Modern and Contemporary Italian Cinema features the work of filmmaker Roberto Andò” è il titolo della Conferenza.
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Viaggio nella memoria, «CineCritica», XXIII, 89, Gennaio-Marzo 2018, pp. 22-29
Viaggio nella memoria: il cinema di Roberto Andò
Di seguito un estratto dal libro La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò (Edizioni Kaplan, 2013 e 2017, anche ebook, pp. 131-141) di Marco Olivieri, prima monografia sul regista, aggiornato per l’occasione e pubblicato sulla rivista «CineCritica», periodico di cultura cinematografica a cura del SNCCI, Anno XXIII, n. 89, Gennaio-Marzo 2018, pp. 22-29. Il numero è dedicato in buona parte al regista.
Partiture invisibili agli occhi
Nel cinema di Roberto Andò, la memoria è un faro nel buio, che interroga nel profondo gli esseri umani tra il dolore del ricordo e la tentazione, a volte salvifica, della rimozione. I personaggi appaiono spesso inafferrabili, contraddittori, figli di un passato odiato e mai veramente dimenticato. In questa impossibilità di fare i conti con la memoria, risiede il tormento che porterà alla dissoluzione il protagonista di Sotto falso nome (2004), mentre in Viva la libertà (2013) rivisitare il passato significa riconoscere l’impossibilità di un’armonia dell’essere, ormai perduta, resa ancora più lacerante dalla figura di due gemelli che non comunicano tra di loro se non in maniera inconscia.
Comprendere chi si è, come imparerà a caro prezzo Marco Pace nel film Il manoscritto del principe (2000), è un’impresa per la quale non basta una vita intera. Anche la consapevolezza esistenziale del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mentre prepara il romanzo che lo consegnerà alla storia, non fa di lui un uomo migliore, né lo preserva dal dolore. Forse l’essere misterioso ed enigmatico incarnato dalla moglie, la psicoanalista Alexandra Wolff Stomersee, potrebbe aiutare i tre personaggi (gli allievi Pace e Guido Lanza e il loro maestro) a conoscersi meglio, ma la psicoanalisi è destinata a rimanere un mondo appena sbirciato, prima di ritrarsi.
La memoria, per Andò, è ricchezza ma anche condanna. È un giudizio mai espresso sul romanzo dell’allievo ed è un senso di colpa generato dal desiderio di veder morire il tiranno. Il principe lega a sé, provocando sentimenti ambivalenti e un lacerante senso di colpa per il tradimento nei confronti del padre. Un despota che, però, rimarrà, per tutta la vita, un orizzonte intellettuale con il quale Marco, il figlio o l’innamorato tradito, continuerà a confrontarsi e scontrarsi.
La memoria , quindi, nasconde una mancata trasmissione tra vecchie e nuove generazioni. Fili che si recidono tra padri e figli. Tradimenti dei primi nei confronti dei secondi, giovani che vorrebbero correre verso il proprio futuro senza percepire il peso delle sconfitte di coloro che li precedono. Ma anche necessaria uccisione del padre, sulle orme di Freud, volta a creare lo spazio per la costruzione di un proprio desiderio.
Se appare evidente il filo che lega Diario senza date (1995) al Manoscritto, il primo lungometraggio di Andò risulta in maniera più sottile collegato anche al terzo titolo, Sotto falso nome, sfiorato dall’impronta tragica del nazismo per rendere ancora più inquietante il viaggio nei rebus del passato. Nel suo esordio, la memoria colpita dal disastro della guerra si esplicita in più immagini e rimane impresso (scovato dal tesoro degli archivi) lo sguardo di donne e bambini segnati dalla crudeltà del mondo. In una chiave più sotterranea, potremmo unire idealmente una serie di figure fondamentali del Novecento, da Hannah Arendt a Primo Levi, con la loro consapevolezza del male, per comprendere quale sia il terreno culturale sul quale si fonda una narrazione che presenta sfumature metafisiche. A questo sguardo consapevole si accompagna una passione senza fine per l’opera del narrare.
Nelle parole finali di Sotto falso nome si ascolta una condensazione della poetica cinematografica di Andò: la creazione artistica esige sempre un segreto e raccontare consiste in un patto, un «filo invisibile» che ci lega al ricordo e alla constatazione che «gli eventi e le persone ritornino come ombre». Simili considerazioni si possono riallacciare a quelle conclusive di un autore amato dal regista, Javier Marías, nel romanzo Domani nella battaglia pensa a me, affidate alla voce del protagonista, Victor: «E quanto poco rimane di ogni individuo nel tempo inutile come la neve scivolosa, di quanto poco rimane traccia, e di quel poco tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo».
Di questa partitura profonda e invisibile agli occhi – impastata di sogni, ombre, desideri inconsci e verità autentiche o presunte – racconta il cinema di Roberto Andò, senza perdere mai la consapevolezza di come l’uomo conservi inconsciamente dentro di sé i fantasmi del passato. In Sotto falso nome, la riflessione sull'atto creativo, tra rielaborazioni, scrittura e vita, si interseca con l'indagine sull'identità e su quanto essa sia una combinazione di verità e di menzogna, al pari della creazione artistica. Attraverso il genere thriller, evocato già da Lampedusa, si sviluppa un racconto che esplora il tema della mancanza d'innocenza insita nella natura umana e nelle relazioni fra gli individui.
In Viaggio segreto si apre uno spiraglio affinché la memoria possa essere elaborata nel segno del mutamento. Anche qui è presente una colonna sonora volta a coniugare senso di sospensione e progressiva immersione in una dimensione esistenziale portatrice di smarrimento, dolore, ma anche capacità di guardare la vita da una nuova, inedita prospettiva. Una musica, come quella palpitante di Marco Betta – lo stesso sensibile compositore del Manoscritto, senza dimenticare le coinvolgenti note di Ludovico Einaudi in Sotto falso nome e di Nicola Piovani nelle Confessioni, o le altre significative scelte di brani di repertorio nei vari film, da Wagner a Mozart e Schubert – che si sposa a una regia solo apparentemente fredda, intellettuale, come ha sostenuto una parte della critica. In realtà, è una regia profondamente legata alle emozioni, alle pulsioni profonde di uomini e donne preda dell’inconscio, con l’obiettivo di indagare una realtà oscura, sotterranea, sempre foriera di nuove scoperte.
Una nuova fase artistica è avviata con Viva la libertà. La novità è nello stile narrativo, felicemente sospeso tra leggerezza e profondità. La ricerca dei nodi irrisolti del vivere continua e un personaggio come Giovanni Oliveri, con lo pseudonimo di Ernani, in bilico tra comicità e tragedia, filosofia e poesia, simboleggia lo slittamento verso una visione cinematografica e letteraria capace di cogliere lo spirito del tempo e le istanze più profonde dell’individuo.
Come osserva Giancarlo Lombardi, il film, più che un adattamento, risulta un «fratello cinematografico» del romanzo Il trono vuoto , scritto dallo stesso Andò . Dopo l’intensità emotiva dei suoi precedenti racconti per immagini, il regista continua a raccontare gli angoli meno visibili dell’esistenza, ma con un tocco più ironico ed evocativo. L’indagine sui labirinti interiori si combina con il racconto appassionato della politica e della vita, in un originale viaggio nella memoria.
Da Viva la libertà a Le confessioni (2016), ancora economia e politica influenzano una narrazione che trova le sue peculiarità nel paradosso, nell’ironia, nel guizzo surreale, pur convivendo con la tragedia e il senso della catastrofe. Se il tema della memoria degli altri, rispetto agli altri titoli, appare meno centrale, in questo nuovo capitolo, è vero però che le due figure chiave, Roberto Salus e Daniel Roché, appaiono entrambe attraversate da una profonda memoria storica. Una coscienza della Storia e dei suoi risvolti drammatici che anima i differenti punti di vista nello scenario internazionale al centro del racconto per immagini. Nell’ultimo film, si sancisce il passaggio dall’attenzione all’individuo, in chiave psicoanalitica, alla dimensione collettiva, sempre indagando la psiche dei personaggi .
Il linguaggio cinematografico
Nel cinema di Roberto Andò, viene valorizzata l’ambivalenza delle relazioni, da quelle familiari ai rapporti che si instaurano tra maestro e allievo o fra amanti, esaltando la conflittualità interiore dei personaggi, espressione di un’anima inquieta, travagliata. Spiccano pure gli interni, densi d’oscurità, con le figure spesso prigioniere di uno spazio fisico e mentale. Negli esterni, invece, si alternano la vaghezza del giorno e la visione incerta del passato, in bilico fra sogno e rievocazione soggettiva, la malinconia del crepuscolo e l’irrompere di una solarità inedita come immagine (in Viaggio segreto) del mutamento.
In ogni film, come le scenografie risultano sempre una componente che riflette l’interiorità dei protagonisti (di particolare fascino quelle di Giancarlo Muselli negli ambienti di Lampedusa ed è notevole l’apporto creativo di Gianni Carluccio in Viaggio segreto), le scelte visive raccontano la storia e i suoi personaggi in profondità. Dai titoli di testa in bianco e nero alle sfumature a colori (tra luci e ombre) del passato nel Manoscritto, nella fotografia di Enrico Lucidi, fino al fascino evocativo delle immagini in Sotto falso nome, alla varietà cromatica di Viaggio segreto, alle atmosfere lunari di Viva la libertà e alla valenza pittorica nel successivo Le confessioni, con la fotografia di Maurizio Calvesi come costante.
A sua volta, il montaggio cerca di ricostruire il flusso incoerente, ma vitale, della memoria, fatto di ricordi parziali, ricostruzioni, menzogne, inganni della mente, ove vero e falso si combinano filosoficamente grazie a una macchina da presa che si muove con delicata profondità, tra grandi movimenti in steadycam e piccoli slittamenti nel dolore e nel ricordo.
In Viaggio segreto, i volti della memoria sono i colori scuri del presente e della rievocazione intrisa di dolore quando il buio sta per impadronirsi della realtà. Ma anche i toni accesi, vigorosi come le pennellate dell’artista Harold (impersonato da Emir Kusturica), di uno scenario e di un mare che possono riannodare i fili del tempo, seppure per un momento, per merito di una visione poetica, offrendo un nuovo futuro. Si scorge dunque un elemento cromatico differente per ciascuna realtà interiore, seppure senza la classica distinzione tra il passato ripreso in bianco e nero e il presente a colori , in coerenza con la realtà variegata della memoria, nella quale antichi e nuovi fantasmi convivono e si reinventano costantemente.
Inoltre, la memoria dolorosa di un passato disseminato di orrori e persecuzioni trova nel mondo ebraico la sua connotazione simbolica in Sotto falso nome, mentre in Viaggio segreto è evocata dalla figura di Harold, tentato dall’oblio per non affrontare un dolore personale insostenibile – causato dalla guerra che ha dilaniato l’ex Jugoslavia – eppure al tempo stesso, come ogni artista, affascinato dalla memoria degli altri.
Con Viaggio segreto si assiste a un compimento della riflessione di Andò sulla creazione artistica e sulla sua capacità di toccare corde profonde e oscure dell'esistenza. Il regista continua forse a identificarsi con il bambino di Diario senza date il quale, lampada in mano, fruga nelle stanze della memoria, scoprendo che «ricordare i ricordi degli altri può uccidere». Si registra, tuttavia, un salto progressivo verso una possibile liberazione, nel segno della sensualità e della vita, con tutti i chiaroscuri di un percorso che non può mai essere lineare o semplicistico.
Un altro tema centrale è quello dell’identità intrecciata con la letteratura: dal gioco dei manoscritti nel film su Lampedusa all’interrogazione sulla paternità letteraria in Sotto falso nome, fino alla nuova declinazione del rapporto fra letteratura e cinema avviata con Viva la libertà. Qui il romanziere e regista è riuscito a trasportare gli interrogativi del libro, con i suoi enigmi, in una messinscena cinematografica che esalta il senso artistico insito nelle immagini, con il loro carico di ambiguità.
L’intreccio fra cinema e letteratura, avviato con i personaggi degli scrittori di Sotto falso nome e del Manoscritto, dopo l’immersione psicoanalitica di Viaggio segreto, trova una sua valorizzazione nel rapporto dialettico romanzo/film di cui si nutre Viva la libertà. Lo stesso filosofo, Giovanni Ernani, scrive molti libri, mentre Enrico, da giovane, sognava di fare il regista. Grazie al cinema, e alla famiglia di artisti che lo tiene al riparo, il segretario entra di nuovo in contatto con il suo antico desiderio, sul set francese, e riprende il filo della sua esistenza, reciso a Cannes molti anni prima. Con il film nel film, si rende omaggio alla capacità del cinema di riavvolgere il nastro della vita e recuperare l’eco di sogni perduti.
In Diario senza date affiora una certa attenzione a elementi religiosi, seppure in un contesto sempre segnato dall’assenza di Dio e da una crisi spirituale e antropologica. I film successivi sembrano esaltare tale assenza e privilegiano l’indagine intrapsichica, tra pulsioni ed emozioni che stentano a trovare una razionalizzazione. Tuttavia, in Viaggio segreto, s’intravede un’interessante dimensione spirituale, tra il buio delle grate di un confessionale e la luce di una possibile rigenerazione. Quasi uno sguardo metafisico sulla natura e i luoghi, oltre che sulla fragile sacralità della condizione umana. Una dimensione spirituale che trova compimento con Le confessioni.
Attraverso una narrazione emozionante, nella quale la freddezza e il non detto celano sempre un tessuto di emozioni palpitante, Roberto Andò fa emergere l’anima autentica del mondo, nel quale eros e thanatos guidano uomini e donne e solo pochi esseri – come l’artista in Viaggio segreto, nel nome del potere quasi sciamanico dell'arte – possono avere la fortuna di guardare fino in fondo nel buio della caverna, alla ricerca di una luce che rischiari il loro cammino. Un’esperienza che, al termine della sua avventura nel luogo stregato - la villa dove tutto è avvenuto – può vivere anche lo psicoanalista Leo, finalmente non celandosi dietro i propri pazienti.
Il cineasta riesce a toccare pieghe profonde del vivere, mettendo in luce la presenza dell’inconscio, personale e collettivo, quale elemento narrativo centrale che determina i destini e governa (dietro l’apparenza) la vita. Una partitura invisibile, eppure così presente e decisiva. Nei suoi film, la parola – poetica, esistenziale, filosofica – si fonde con una regia sensuale e dotata di gusto analitico per il dettaglio, in linea con un montaggio che mescola tracce e visioni.
Per Andò, l’elaborazione del lutto va affidata all’abilità dell’arte di percepire e fare riemergere verità sepolte e dimenticate. Verità intermittenti come il gioco continuo di luci e ombre, i costanti passaggi temporali e le variazioni atmosferiche. L’ambizione del suo cinema è quella di cimentarsi su questo scenario rimosso, per scoprire i lati più segreti dell’esistenza, quelli quasi mai toccati dalle parole ma impressi nel vissuto di ogni essere.
Tra senso figurativo della visione e ricomposizione del montaggio, il linguaggio cinematografico coglie gli elementi più originali e nascosti dei rapporti umani, con i loro risvolti esistenziali. La regia appare elegante e riproduce la lentezza dell’analisi, ma anche i momenti di svolta dell’esistenza, i segreti più profondi, le verità non dette e spesso nascoste anche a sé stessi. Come la psicoanalisi, il suo cinema penetra nell’oscurità dell’inconscio, sostenuto da uno stile narrativo non lineare, intento a evocare realtà vissute o solo immaginate.
Di rilievo anche l’uso originale del campo e controcampo, il ritmo alternato dei film e i movimenti di una cinepresa capace di esplorare fino in fondo la realtà segreta delle emozioni per suggerire nuove e complesse interpretazioni, nel Manoscritto del principe. Uno stile espressivo in costante ricerca, tra labirinti, giochi di specchi (come lo sdoppiamento del ragazzino nel finale di Diario senza date) e oscurità in parte alleviate da frammenti di luce. La cinepresa avvolge lo spettatore e lentamente lo conduce lì, nel cuore delle storie, dove il dolore del vivere si nutre di antiche, irripetibili, nostalgie (il tesoro dell’infanzia o lo sguardo innocente di chi scruta da bambino i genitori e gli adulti) e prese di coscienza della realtà.
In Sotto falso nome prevale un occhio indagatore esterno, coincidente con la stessa macchina da presa. La cinepresa indietreggia e osserva il teatro di esistenze destinato a franare, identificandosi con lo spettatore. Una simbiosi artistica fra linguaggio visivo e composizione musicale si ritrova anche in Viaggio segreto, in una chiave narrativa e analitica differente. In questo caso, i movimenti della cinepresa e il montaggio, tra passaggi temporali e cambi di prospettiva, sono in funzione di una memoria frutto della ricostruzione psichica operata dal protagonista. Questi elementi, insieme con la struggente narrazione musicale di Marco Betta, creano la memoria degli altri. Una memoria nella quale destini individuali e collettivi cercano di trovare un difficile equilibrio, raggiunto solo dalla potenza evocativa dell’arte. Arte come rifugio momentaneo, e spesso salvifico, dalla tempesta della vita, agitata da strappi, lacerazioni, segreti dolorosi e prigioni interiori costruite nel tempo.
Tra accelerazioni e momenti di lenta acquisizione della verità – dall’uso della macchina a mano nel momento dell’assassinio, con i corpi tesi e disperati, alle fasi più analitiche del racconto, in un paesaggio interiorizzato – Viaggio segreto rende ancora più evidente uno stile che coniuga i grandi spazi del cinemascope, nei quali spesso risalta la solitudine individuale, e lo sguardo introspettivo.
Se Il manoscritto del principe affronta il tema della memoria quasi come un’impossibile utopia, perché il rapporto tra le persone si svela solo a posteriori, nell’idea che l’essenza di un rapporto umano sia inevitabilmente postumo, questa idea permane nel viaggio ispirato al romanzo Ricostruzioni di Josephine Hart. In Viaggio segreto, i segreti che motivano i personaggi, con il patto tra padre e figlio, non sono rivelabili, ma consentono in questo caso di salvare una vita.
Nel cinema di Andò, come nella psicoanalisi, ciò che non si dice è più importante di qualsiasi affermazione, con silenzi significativi che dividono e uniscono i suoi personaggi. Si assiste spesso anche a un sussulto della macchina da presa verso l’alto, come un viaggio nello spazio dei ricordi. Se carrelli e panoramiche indagano analiticamente i labirinti interiori che animano la vita degli esseri umani, dietro l’apparenza e il non detto, l’uso del dolly sancisce un richiamo verso qualcosa di più grande, sublime e profondo. Vette impossibili da afferrare, insondabili come il cielo, infinite e inesplorate come il mare di Viaggio segreto o come l’inconscio degli stessi personaggi, con il loro carico di mutilazioni e fragilità.
Nei suoi film, il regista elabora un lutto ricco di sfaccettature, tra senso di morte e della perdita, grido soffocato per un dolore radicato nella condizione umana e rapporto tormentato, ambivalente, con la propria terra d’origine, la Sicilia, in relazione con un’autorevole tradizione letteraria. Ogni film costituisce un progressivo avvicinamento a un nucleo nascosto, profondo, invisibile, ma che alberga in ognuno di noi. Un luogo dei misteri, antico e irraggiungibile, che rinnova lo struggimento per un passato che non ritornerà.
Nel suo percorso, esiste una coerenza, nella visione del mondo e dei lati più oscuri dell’esistenza. Si torna indietro nel tempo e l’indagine si sofferma su un particolare sfocato. Per metterlo a fuoco, occorre un’elaborazione travagliata perché lì si cela un momento decisivo, nel quale qualcosa si è bloccato ineluttabilmente, condizionando il corso successivo dell’esistenza. La ricostruzione è in alcuni casi possibile, ma sempre dolorosa, difficile, e l’identità, individuale e collettiva, rivela tutta la sua illusorietà.
In particolare, con Viva la libertà e Le confessioni , il romanzesco, come opzione dell’immaginazione, si sposa con un tono pazzerello , come lo definirebbe Pasolini, e, nel secondo titolo, con uno stile da operetta morale . Uno stile che trova in una leggerezza densa di simboli e di deviazioni, talora scherzose talora irrazionali, come avviene nell’intreccio con al centro i due gemelli Oliveri, la possibilità di non soccombere di fronte a una realtà dominata dal conformismo.
Un cinema ricco dunque di «una leggerezza della pensosità», per citare Italo Calvino, in «reazione al peso di vivere» , che troverà nuove forme nel nuovo film, Una storia senza nome, in uscita nell’autunno 2018.
Marco Olivieri