Alessandro Amaducci e il suo mondo del visivo di Elisa Guzzo Vaccarino
Videoarte, multimedia, fotografia, ma anche teatro e musica, tra scena e schermo, sono amori di lunga data per Alessandro Amaducci, torinese, docente universitario, colto ed eclettico vj, che pubblica ora un testo esaustivo sulla videodanza e dintorni, analizzando epoche, generi, tipologie.
Screendance, Sperimentazioni visive intorno al corpo tra film, video e computer grafica, edito da Kaplan, non trascura nessun aspetto delle differenti e molteplici forme della videodanza. Già il titolo, Screendance, ad ampio raggio, è molto meditato e ben scelto, a ragion veduta.
Il cinema degli albori è notoriamente “amico” della danza, dei corpi e delle forme in movimento e Amaducci apre il suo ricco spaziando da Loie Fuller (1902), l’americana che brevettò le sue schede illuminotecniche, incantando gli Impressionisti e i Futuristi, fino a Walt Disney con la sua danza macabra Silly Symphony, Skeleton Dance (1929), dalla pioniera Maya Deren, danzatrice nella compagnia afroamericana di Katherine Dunham, maestra di James Dean, a Norman McLaren con le sue animazioni (Pas de deux), per indicare solo i nomi più universalmente noti quanto ai filmmaker del passato.
Sono stati loro gli apripista perché poi i coreografi stessi passassero dietro la macchina da presa e la telecamera, i postmoderni americani come Yvonne Rainer (Trio A, 1978), i francesi della nouvelle danse come il neo-dadaista Philippé Decouflé, i maestri del teatro-danza, come Pina Bausch in Germania (Die KlagederKaiserin, 1990) e Wim Vandekeybus in Belgio.
Alessandro Amaducci in Screendance distingue tra racconti danzati, quelli ad esempio dei DV8 (deviati) inglesi e danza simbiotica con il film, come nel caso dei canadesi La LaLa Human Steps.
Si analizza il lavoro sperimentale, video-installativo del belga Thierry De Mey, fratello di una delle danzatrici del gruppo Rosas di Anne Teresa De Keersmaeker e collaboratore di tanti coreografi, tra cui il geniale americano William Forsythe (One Flat Thing reproduced, 2007); si parla di cinema digitale e arte della documentazione guardando a Charles Atlas, “The Guy with the Camera who loves Dance”e Elliot Caplan per Cunningham, Peter Greenaway (M Is for Man, Music and Mozart, BBC 1991 e Prospero’s Books con Michael Clark come Caliban), ma anche a una documentarista originale e complice come Clara Van Gool (Enter Achilles, DV8, 1996).
Quanto a videoarte e videodanza, immancabile lo spazio riservato a Nam June Paik, pioniere di lavori fondanti con Merce Cunningham (Merce by Merce by Paik) e alla coppia N+N Corsino, portabandiera della scuola di pensiero francese.
Videodance e videomusic, ovviamente, si sono incrociate e continuano a farlo: un caso per tutti David LaChapelle per la superstar classica Sergei Polunin nel video diventato ultra-virale in rete con 14.500 visualizzazioni (Take me to the Church, su musica di Hozier).
Screendance e fashion movie si sono ibridati molto volentieri. E in tv una serie storica come Fame, college durissimo per giovani artisti, ha fatto della danza su schermo un genere, da cui deriva anche il dibattuto Amici di Maria de Filippi.
La motion capture è ovunque al cinema. Basterà ricordare, in palcoscenico, Biped di Merce Cunningham (1999), sul crinale tra naturale e artificiale.
In Screendance di Alessandro Amaducci c’è molto di più, ma la timeline delle opere e la bibliografia sono un tesoro di per sé, senza dimenticare le risorse web per lasciare aperto il tema di un volume di ampia e pregiata caratura.